“COMUNQUE VADA QUA VA MALE” di AKADANNO

Comunque vada qua va male… (tratto da Moodmagazine 1, 2008)

A volte mi chiedono “come lo vedi il futuro dell’hip hop in Italia?”, io cerco una qualche risposta ma alla fine capisco solo di non capirci granchè, di avere la vista annebbiata. Sono piu’ quindici anni che cerco una chiave di lettura, la famosa parola chiave che se ti manca è meglio che “lasci stare”. E sono quindici anni che mi sembra di assistere a un infinta partita di ping pong. Quelli della mia generazione hanno passato una vita a dibattere su hardcore, commerciale, street rap, gangsta rap, conscious rap, le quattro discipline che forse sono più di quattro e cose del genere. Ognuno a modo suo si è proclamato detentore di un qualche titolo ma alla fine tutto appare come un gran casino e per quanto provo a guardarmi intorno mi sento più confuso di prima. Strana generazione, la mia. Il mio amico talebano compra solo vecchi vinili, più sono vecchi e sconosciuti e piu’gode mentre mi mostra con orgoglio copertine di dischi che non ho mai visto, mai sentito, mai coperto. Ovviamente compra solo stampe originali, perché le ristampe sono per i sucker. Il mio amico talebano dice che per lui tutto quello che è uscito dopo il 1998 non ha importanza, che da Eminem in poi l’hip hop è morto, o se non è morto, è comunque meno hip hop di prima. Il mio amico talebano mi parla sempre delle stesse cose, di New York che è la mecca, di Slick Rick che ha anticipato mezza discografia rap e di Tupac che in fondo a lui non è mai piaciuto perché è troppo West Coast, anche se “…comunque non rappava male”. Eh già, come se New York a Roma andasse bene, ma Los Angeles no. E non provate a parlargli di South o di crunk se non volete offenderlo. Il mio amico talebano sbava sulle foto del libro di Marta Cooper e ha una visione tutta sua della cosa, si veste in modo bizzarro coordinando tutto senza tralasciare il minimo particolare (anzi, è il particolare che fa di un b boy un b boy vero), e se gli togli l’hip hop è un uomo finito. Fondamentalista convinto, snobba qualunque forma di rap italiano a meno che non sia fatto in chiave di tributo all’hip hop originale proveniente dai 5 borroughs. Ripete ossessivamente che qui la gente non ci capisce un cazzo e porta in fondo al cuore la croce di essere nato dalla parte sbagliata del mondo. Perché il mio amico talebano è nato a Roma, ha la pelle bianca come una mozzarella ma storce il naso di fronte a qualunque Mc che abbia il suo stesso colorito e non sopporta questi bianchi che si sono messi a fare il rap, a parte i 3rd Bass ma solo perchè sono old school. Io lo guardo e penso che gli manchi qualche rotella. Lui mi guarda e pensa che ancora non ci siamo, che mi potrei impegnare di più, che potrei essere più hip hop. Il mio amico coreano non è veramente amico mio, non so neanche come si chiama ma vive nel mio stesso quartiere e quando lavoravo all’internet point sotto casa veniva spesso a telefonare e scambiavamo sempre due chiacchiere; anche se non parla bene la mia lingua conosce perfettamente il mio linguaggio. È bastata un occhiata, io alle sue Air Force One, lui alle mie Jordan e ci siamo subito resi conto di essere in qualche modo uniti da una stessa passione. Anche se lui, essendo coreano è molto piu’ pimpato e coatto di me. Io ancora soffro il complesso del bianco che piu’ di tanto non si puo’ sbilanciare e che si sfoga ascoltando El P, lui certi complessi non li ha mai avuti. Si veste in cordinato da basket alternando in testa fascette Nike a bandane sempre in tinta con il throw back, come suoneria per il cellulare ha “westside connection” di The Game, e sul muro sotto casa mia ha scritto “B Boy Korea” in viola con un lettering pessimo. Quando cammina ha sempre le cuffiette e traffica sempre con il suo Ipod nano alla ricerca di chissà quale pezzo, e se gli passi vicino lo senti che rappa sottovoce mentre cammina. Cambia spesso il bling al collo, a volte è una foglia di marijuana, a volte la $ del dollaro, altre volte ancora una pistola. Gli vorrei chiedere se è una Desert Eagle o una Glock, tanto per vedere se è un esalatato di ste cose ma alla fine evito. Il mio amico coreano gioca tutto il giorno a basket al campetto della chiesa di quartiere, quando lo incontro è sempre sudato e se gli chiedo cosa ascolta in quel momento mi dice “gangster shit” e fa il gesto della pistola con la mano e io dico “yes” anche se non so perché. Mi ha sparato un po di nomi di gruppi che gli piacciono ma su dieci nomi ne conoscevo a malapena due. Tutta roba moderna che fatico ad ascoltare un po perché non mi piace musicalmente, un po perché ho passato un sacco di tempo col mio amico talebano e sono mentalmente tarato. Provo a citargli Mf Doom o Madlib ma il suo sguardo perso nel vuoto mi fa capire che non ha idea di cosa io stia parlando. Gli butto li un po di nomi vecchi ma si esalta solo quando nomino gli Nwa. Gli chiedo se conosce qualcosa di rap italiano. Fa un mezzo sorriso di circostanza, ma proprio mezzo, e scuote la testa. Io lo guardo e capisco che non gliene puo’ fregare di meno. Esattamente come al mio amico talebano. Poi passa accanto a noi un pischello, forse slavo ma forse no, vestito male, jeans grigio scuro, stretto e consumato, scarpe old school ma non per scelta, giacchettino sintetico finto adidas, con due strisce sulle braccia invece che le solite tre. Io e il mio amico coreano lo guardiamo passare accanto a noi con la faccia incazzata, senza degnarci di uno sguardo, perso per i cazzi suoi. In quel momento capisco tutto. Lui non sa nulla dell’hip hop, della vecchia scuola o della nuova. Lui probabilmente ha solo fame e gli rode parecchio il culo. Quando quelli come lui cominceranno a fare rap, addio alle pippe mentali tipo east coast o west cost, addio alle diatribe club si o club no, commerciale o hardcore. Quando quelli come lui cominceranno a fare sul serio, e vi assicuro che hanno già cominciato, io e il mio amico talebano saluteremo tutti e ci ritireremo in uno scantinato buio ad ascoltare i vecchi dischi del Wu Tang, rimpiangendo la nostra bellissima adolescenza trascorsa fra vinili, marker e sneakers rare, mentre il mio amico koreano continuerà imperterrito a giocare al campetto sotto casa, con le cuffie sempre sulle orecchie e quel sorriso di chi non gliene puo’ fregare di meno…

(tratto da MoodMagazine 1)

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